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Archistar: sogno o delirio?

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Archistar: sogno o delirio?
Archistar
Daniel Libeskind, Museo Ebraico, Berlino

Il neologismo archistar al giorno d’oggi indica un architetto molto famoso, al centro dell’attenzione pubblica per i propri progetti distinti da un’alta dose di spettacolarità. Il loro nome diventa spesso un vero e proprio brand. Il termine è stato introdotto nel Grande Dizionario Italiano dell’uso di Tullio De Mauro e nella pubblicazione Neologismi. Il Vocabolario Treccani di Giovanni Adamo e Valeria Della Valle ed è ormai di uso comune soprattutto nei mass-media. Spesso si dà al termine un’accezione negativa, a sottolineare la tendenza di certi architetti contemporanei a lavorare più sull’immagine che sul concetto architettonico, ma con questo post non voglio dare giudizi, semplicemente esporre un fenomeno che ad oggi influisce nell’evoluzione della storia dell’architettura.

Sono molti gli architetti che rientrano nel club delle archistar. Tra questi Rem Koolhaas, Zaha Hadid, Frank Gehry, Jean Nouvel, Renzo Piano, Santiago Calatrava, Steven Holl, Herzog & De Meuron, Daniel Libeskind, e molti altri.

Con le archistar, l’architettura è diventato un argomento di massa, gli architetti diventano personaggi di successo, vestono di nero. Le architette, invece, vestono abiti di stilisti d’avanguardia, si presentano al mondo dei media con tutto quel fascino e glamour che siamo soliti attribuire alle star della musica pop o rock.

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Architetti di grandi opere

Generalmente le archistar non costruiscono normali abitazioni, ma si dedicano a grandi opere. Centri culturali, musei, centri di intrattenimento, sale da concerto, auditorium, stadi e strutture sportive. Le amministrazioni arrivano a spendere delle fortune e ad impiegare anche anni alla realizzazione di queste opere. Certe nazioni, in via di sviluppo o con forme di governo discutibili, ormai adottano l’archistar per apparire alla pari degli “altri”, intrecciando nuovamente politica e architettura (basti pensare alla Cina e alle grandiose opere per le Olimpiadi del 2008).

Archistar
Frank Gehry, Guggenheim, Bilbao
Questo tipo di architetture hanno segnato il ritorno forse delle strutture utopiche del passato, nell’immaginare strutture difficili da realizzare, da un punto di vista tecnico ed ingegneristico.

Padre di questa architettura visionaria e monumentale, forse è stato Anton Gaudì a Barcellona, le cui opere erano talmente visionarie da incontrate una certa ostilità da parte del pubblico e soprattutto della critica (un esempio su tutte, La Sagrada Familia). Strutture che nonostante tutto poi suscitano interesse e flusso di turismo, anche in posti dove prima non c’era praticamente nulla (vedi Bilbao prima e dopo l’apertura del Guggenheim), diventando quindi fonte di ricaduta economica e sociale. Altre volte rischiano di diventare delle cattedrali nel deserto. Oppure simboli di spreco e di follia consumistica-capitalista (vedi Burj Khalifa a Dubai, il grattacielo più alto del mondo). 

Archistar
Santiago Calatrava, Città delle Arti e delle Scienze, Valencia

Archistar e archi-mostri

Insomma forse basta ammettere che non è sufficiente avere un’archistar ed una grossa cifra da spendere, per creare un’opera d’arte architettonica. Serve avere un progetto ponderato che si inserisca in un contesto ben preciso, altrimenti si rischia di creare un archi-mostro. E forse un po’ più di architettura sociale, rivolta ad abitazioni collettive, a basso impatto ambientale, non farebbe male.

Probabilmente le popolazioni future di noi diranno che siamo stati una civiltà globale e che non avevamo bisogno di niente, se non del superfluo.

C.C.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

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