
Non parlo spesso dell’arte del Duecento italiano, forse perché molto religiosa e un po’ ripetitiva, ma l’opera che vi presento oggi, per me è un’eccezione.
Si tratta del grande Crocefisso che Giotto realizzò per Santa Maria Novella a Firenze all’inizio dell’ultimo decennio del cosiddetto Dugento. Giotto aveva appena concluso la sua partecipazione al ciclo degli affreschi della Basilica Superiore di Assisi. In quel gruppo tuttora indefinito di romani, allievi del Cavallini, aveva per la prima volta applicato il suo senso della vita reale, della sofferenza e dell’esaltazione, a dimostrazione che il gusto bizantino poteva essere superato. Per la prima volta nella storia delle arti visive italiane appaiono le lacrime e i denti.
Passò quindi dai francescani di Assisi ai domenicani di Firenze, per i quali realizzò questo splendido Crocefisso. Ambedue gli ordini di predicatori avevano cambiato alla radice la fede cristiana. Cristo per questi ordini religiosi era vero, umano e carico di sofferenza. E Giotto assimilò questo insegnamento, trasferendolo nelle sue opere. Il passaggio dal Christus Triumphans al Christus Patiens o Dolens fu alla base di un cambiamento linguistico che arrivò anche alla pittura.
Il Cristo di Giotto qui è veramente morto e il suo sangue riscatta il teschio della nostra morte. Prima di lui, i pittori toscani come Giunta Pisano e Cimabue, pur mantenendo un tipo di rappresentazione bidimensionale, scelsero una nuova posizione curva del corpo sulla croce. Ma ora il corpo del Cristo si sporge in avanti e il nudo è studiato dal vero senza esitazioni. Mai, in tutta la storia dell’arte, l’umanità del Cristo era stata espressa in modo altrettanto sincero e toccante. Si tratta del modello iconografico del Cristo sofferente, che si diffuse nell’Italia centrale dalla seconda metà del ‘200.
Ma Giotto va oltre, scegliendo di raffigurare la dimensione umana del Cristo con un nuovo linguaggio pittorico attento alla plasticità delle forme. Il corpo di Gesù è pesante e sotto la spinta della forza di gravità cade verso il basso, abbandonando l’innaturale posa curva. La figura acquisisce concretezza, tridimensionalità e volume. Le mani, ormai prive di forza, sono dipinte con grande naturalezza e senso della profondità spaziale. Anche i piedi, sovrapposti e bloccati alla croce con un unico chiodo, ci mostrano una moderna sensibilità prospettica.

Accentua l’intensità drammatica della scena un getto di sangue che schizza con forza dalla ferita nel costato. Alle due estremità della tavola orizzontale vediamo la Vergine e San Giovanni. Il loro sguardo diagonale segue la direzione delle braccia di Gesù contribuendo all’equilibrio compositivo della costruzione spaziale.
In basso, sulla base trapezoidale, Giotto dipinge alcune rocce che rappresentano un chiaro riferimento al monte Calvario. Questa allusione scenografica trasporta in qualche modo il crocifisso all’interno di un paesaggio reale. Con Giotto nacque la lingua italiana moderna della pittura, esattamente come pochi anni dopo nacque la lingua italiana moderna della parola con Dante.
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C.C.
Fonti: Il museo immaginato, Philippe Daverio, Rizzoli, Milano, 2011