Giuseppe Capogrossi nacque a Roma il 7 marzo 1900. Pittore italiano, dopo la laurea in giurisprudenza studiò pittura alla scuola di Nudo di Felice Carena. Esordì come artista nel 1927, all’Hotel Dinesen di Roma con Emanuele Cavalli, ma in seguito visse per alcuni anni a Parigi. Il Capogrossi di questi anni è un compromesso tra l’Italia e la Francia. L’Italia di De Chirico e la Francia, cui l’artista guarda sin dal ’27, di Cézanne, di Picasso e di Matisse. Nel 1933 firmò il Manifesto del primordialismo plastico insieme a Cavalli e Melli, con i quali espose lo stesso anno alla galleria Bonjean di Parigi. I dipinti di questo periodo presentano una particolare attenzione ai valori tonali della pittura, che caratterizza anche gli altri protagonisti di quella che venne definita Ecole de Rome.

L’allucinante fissità delle forme, gli atteggiamenti statici e gli sguardi assenti delle figure, collocano la sua opera di questi anni al limite tra fisico e metafisico. Non c’è nessuna retorica in quei personaggi terrei appena abbozzati che si distaccano solo per contrasto tonale dal fondo grigio azzurro. Ospitati da quinte architettoniche che organizzano la superficie senza inglobare spazio. L’artista stesso, per la seconda Quadriennale del ’35, si auto presentò con queste parole.
Tra gli apporti più importanti e che esulano dal fatto puramente tecnico, è la costruzione tonale e questa trova nel mio attuale indirizzo estetico il suo giusto valore.

La svolta di Capogrossi
Nel dopoguerra la ricerca di Capogrossi si staccò progressivamente dalla figurazione fino a raggiungere la completa astrazione. I primi risultati di questa ricerca artistica vennero presentati nel 1950 presso la Galleria del Secolo di Roma. A 48 anni Capogrossi era già un artista stimato e riconosciuto. Avrebbe potuto, come tanti fecero, amministrare prudentemente una ricerca senza scosse, attardandosi magari nell’indagine postcubista prima di abbracciare la poetica informale. E invece scelse di rivoluzionare il suo lessico pittorico affidando tutto a un unico segno ripetuto all’infinito.
Il linguaggio di Capogrossi da questo momento in poi si basò sull’invenzione di un segno grafico elementare e fortemente comunicativo, che viene ripetuto nelle più svariate combinazioni. Questo elemento primario, definito spesso pettine o rebbio, è sempre associato a campiture di colore piatto, mai materico. Sebbene Capogrossi sostenesse “di non aver sostanzialmente cambiato la sua pittura ma di averla soltanto chiarita”, Michel Seuphor, critico e storico dell’arte, riconobbe, nel testo che accompagnò la prima monografia sull’artista del ’54, il carattere dirompente della svolta del 1949.
Improvvisamente, senza alcun segno premonitore, abbandonò il figurativo per l’astratto, il mestiere per la fantasia, il certo per l’incerto. Il tema da lui scoperto, questo artiglio, questa mano, questo tridente, questa forca è già uno stile. Egli lo piega ai suoi umori, gli imprime le sue fantasie, lo calma e lo esaspera, lo scatena, l’addormenta, lo perseguita, l’asseconda. Dopo Mondrian non ho mai visto una unione così intima e tenace di uno stile personale e di un tema.
Nelle molte opere che vennero dopo questo cambiamento radicale, l’artista allargò il repertorio dei segni. Non più solo tasselli colorati e direttrici ma lettere, zig-zag, tratteggi e sinusoidi. Li liberò da qualsiasi struttura di sostegno rendendo l’opera il risultato del loro processo aggregativo.

I grandi riconoscimenti all’artista
Non mancarono a Giuseppe Capogrossi i grandi risultati e i riconoscimenti quando era ancora in vita. Nel 1962 infatti vinse il premio per la pittura, ex equo con Morlotti, alla Biennale Internazionale d’arte di Venezia. Nonostante le incomprensioni iniziali dovute principalmente al fatto che lasciò in maniera drastica la pittura figurativa, la sua opera andrà ricevendo sempre più consensi a livello internazionale. Si spense a Roma il 9 ottobre del 1972. Nel 2012, nella ricorrenza del quarantennale della morte, una grande retrospettiva della sua produzione pittorica è stata allestita a Savona presso la Pinacoteca Civica di Palazzo Gavotti.
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C.C.