L’arte programmata

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arte programmata
Enzo Mari, struttura

Continua l’esplorazione del contemporaneo con l’irriverente rubrica “Lo potevo fare anch’io“. Sto cercando di colmare le lacune che il sottoscritto ha riguardo a tutto ciò che viene definito arte contemporanea e che spesso dai suoi contemporanei non è molto apprezzato e compreso. Oggi parliamo dell‘arte programmata! Tutto ha inizio quando intorno agli anni cinquanta diversi artisti europei cominciarono ad analizzare i meccanismi della visione, partendo anche dall’utilizzo di illusioni ottiche. Un tratto caratteristico delle opere “programmate” è che spesso si presentano come oggetti in movimento. Proprio per la centralità data al tema del movimento, l’arte programmata viene anche chiamata “cinetica“. I suoi primi passi vanno individuati nei mobiles di Alexander Calder, leggerissime strutture mosse dalla circolazione dell’aria. 

Quando

Ma la vera nascita di questo movimento si può individuare nel 1952, quando l’artista Bruno Munari scrisse il “Manifesto del macchinismo“. In questo testo si parla delle macchine come di esseri viventi, scherzando sul fatto che già allora se ne cominciava a prendere cura come fossero animali domestici. Munari inoltre ipotizzò che in futuro l’uomo sarebbe potuto diventare schiavo delle macchine. Aggiunse che gli unici salvatori del genere umano sarebbero stati proprio gli artisti. Gli artisti secondo Bruno Munari dovevano abbandonare tela, colori e scalpello e cominciare a fare arte con le macchine. La sua profezia si avverò proprio con l’arte programmata. L’artista deve “distrarre” le macchine dal loro funzionamento razionale, e deve farle diventare macchine “inutili”. Questo passaggio rivela già una serie di opere chiamate appunto “Macchine inutili“.

Perché l’arte programmata?

Ma al di là del manifesto di Munari, perché si diffuse l’arte programmata? Gli esponenti di questo movimento volevano opporre alla figura dell’artista, che interpreta soggettivamente la realtà, quella di un tecnico. Un artista-scienziato dell’arte che procedesse con accertamenti metodici nel campo dei fenomeni visivi. Gli esponenti di questo movimento volevano favorire nell’osservatore la consapevolezza dei meccanismi che si innescano durante la percezione delle cose. Solo così si poteva comprendere quanto è convenzionale il modo con il quale osserviamo il mondo. Le opere di questi artisti inoltre sono “aperte”. Opere con elementi dinamici in grado di creare immagini in continua trasformazione il cui aspetto si rinnova nel tempo.

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Un lavoro di gruppo

I primi esponenti dell’arte programmata teorizzarono la superiorità del lavoro di gruppo rispetto a quello individuale. Questo perchè si voleva liberare la figura dell’artista da quell’aura romantica che ancora circondava i protagonisti dell’action painting e dell’arte informale. Nasceranno così, tra la fine degli anni cinquanta e gli inizi degli anni sessanta, numerose associazioni e artisti che lavoravano a stretto contatto. Molti di questi artisti esporranno le proprie opere, spesso prodotte e riprodotte con procedimenti industriali, senza dichiararne la paternità. Erano frutto del gruppo.

Chi

Arriviamo quindi a definire i protagonisti dell’arte programmata. Partendo da alcune premesse delle avanguardie del primo Novecento artisti come Vasarely, Munari, Soto, Mari, Tinguely, Schoffer, Bury sperimentano le infinite possibilità di movimento nell’opera d’arte, da quelle meccaniche a quelle luminose ed elettromagnetiche. Ovviamente abbiamo moltissimi gruppi. Ci sono i francesi del GRAV, groupe de recherce d’art visuelle, fra tutti Julio Le Parc e François Morellet. Gli italiani del Gruppo N di Padova, ovvero Manfredo Massironi, Alberto Biasi, Toni Costa, Edoardo Landi. Il Gruppo T di Milano composto da Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gabriele de Vecchi, Gianni Colombo e Grazia Varisco.

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Bruno Munari

Altre unioni d’artisti caratterizzeranno il Gruppo Zero a Düsseldorf, il Gruppo Effekt a Monaco, il Gruppo Uno a Roma, il Gruppo Mid di Milano e il Gruppo ’57 in Spagna. La scelta di lavorare in gruppo sarà dettata da due motivi principali. Da un lato la necessità di verificare attraverso il confronto la validità delle singole ricerche. Da un altro lato la volontà di opporsi alla mercificazione dell’arte. Infatti il lavoro di gruppo toglieva all’opera lo status di prodotto irripetibile del “genio” individuale, negando quindi l’aspetto elitario di “merce di lusso”.

Dove

Il movimento d’arte programmata non ha un luogo preciso di nascita, ma possiamo dire che si sviluppò in Italia ed Europa più in generale, diffondendosi in seguito anche oltreoceano. Negli Stati Uniti l’arte cinetica e programmata venne ribattezzata Op art, ovvero optical art, raggiungendo il suo picco di fama. Da allora in poi iniziò per questo movimento artistico la parabola discendente. Lea Vergine, critica d’arte, affermò che proprio la sua fama fu la causa della sua fine. Perché l’arte programmata nella fama trovò il successo, il consenso, ma anche la banalità.

Scopri di più …

Questo post fa parte della rubrica #lopotevofareanchio, in cui se vuoi puoi esplorare l’arte contemporanea!

C.C.

Fonti: Arte contemporanea, a cura di Francesco Poli, Electa, Milano, 2003

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