
Oggi per la rubrica mensile sull’arte contemporanea “lo potevo fare anch’io” parliamo di arte concettuale.
Partiamo dalle parole di Rolf Wederer che insieme a Konrad Fischer curò la mostra inaugurata nell’ottobre del 1969 allo Stadtisches Museum di Leverkusen. Mostra che fu la prima rassegna museale precisamente dedicata al tema dell’arte concettuale.
Arte concettuale non è solo il nome di uno tra i più recenti e probabilmente radicali movimenti artistici, ma è un termine che attira l’attenzione su un mutamento generale dell’arte. (…)
La designazione di arte concettuale apre a forme artistiche che non possono essere giudicate e comprese sulla base di creazioni concrete e manifeste, ma che si basano – così come avviene per altri media – su procedure e processi. In altre parole, il cambiamento che questo termine introduce non riguarda solo la forma e il soggetto dell’arte, ma la sua stessa struttura.Rolf Wederer
Questa è l’arte concettuale espressa in sintesi, ma sicuramente il discorso va sviluppato e allargato perché si tratta di un racconto che affonda le sue radici nella stessa storia dell’arte.

Le prime esperienze “concettuali” furono rappresentate dai movimenti Neo-Dada e Minimal Art tra gli anni cinquanta e sessanta. Il primo, i cui maggiori rappresentanti, come Jasper Johns e Robert Rauschenberg, divennero in seguito esponenti di primo piano della Pop Art, fu caratterizzato dall’uso di oggetti presi dal quotidiano e inseriti all’interno dell’opera d’arte. Una simile idea distinguerà poco dopo e in senso già profondamente concettuale anche le provocazioni neo-dadaiste di artisti italiani come Piero Manzoni, noto per i suoi barattoli di merda d’artista. Oppure Vincenzo Agnetti, Mario Merz e Giulio Paolini.

Perché arte concettuale?
Fu il punto d’arrivo del percorso che, dall’impressionismo in poi, aveva caratterizzato l’evoluzione dell’arte visiva contemporanea. Cambiamento avvenuto mediante la volontà di sottrarre l’arte ai vincoli formali e culturali che ne avevano costituito la tradizione. Intorno alla metà degli anni Sessanta alcuni intellettuali reagirono all’indigestione di oggetti e volti da consumare, proposti dalla pop art. Questa “reazione allergica” vide la creazione di nuove proposte che andarono nella direzione di un’arte fredda, assolutamente slegata da qualsiasi tipo di suggestione visiva. Stiamo parlando quindi di una serie di esperienze diverse che vanno sotto il nome generico di arte concettuale.
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Una forma di comunicazione volutamente antiartistica, nella quale gli oggetti diventarono così poco importanti da sparire del tutto. Tutto si ridusse a “semplici” idee, perché arte concettuale significa arte di concetti, cioè di azioni puramente mentali. Gli artisti concettuali cercarono di mettere in risalto l’idea, rispetto all’oggetto. Questo ha anche delle motivazioni sociali e politiche, in quanto negando il prodotto del consumismo, si nega anche il capitalismo che su di esso si fonda. Quindi gli esponenti dell’arte concettuale non furono indifferenti al contesto nel quale operarono. Presero parte a queste forme artistiche concettuali, tra gli altri: John Baldessari, Robert Barry, Mel Bochner, Alighiero Boetti. Marcel Broodthaers, Stanley Brouwn, Daniel Buren, Victor Burgin. Hanne Darboven, Jan Dibbets, Dan Graham, Douglas Huebler. On Kawara, Joseph Kosuth, Sol LeWitt, Edward Ruscha, Lawrence Weiner.

Una vivace e graffiante polemica
La posizione di questi artisti fu quasi sempre di vivace e graffiante polemica, attraverso la quale si evidenziarono le idee di una forte opposizione politica ai modelli di sviluppo proposti dal consumismo capitalistico. Nel momento iniziale, tra il 1966 e il 1969, i suoi sviluppi si sono intrecciati, e in molti casi sovrapposti, a numerose altre linee di ricerca, dalla process art alla land art, all‘arte povera. Di cui vi ho già parlato. Ma già alla metà degli anni settanta molti dei protagonisti e degli osservatori più prossimi diagnosticarono la fine o, in termini più radicali, l’insuccesso dell’arte concettuale. In particolare, quello che allora apparve come un definitivo tramonto coincise nel decennio successivo con il diffuso ritorno alle pratiche tradizionali della pittura e della scultura. E con il riconquistato predominio della dimensione visuale delle arti.

Uno dei più creativi, polemici e graffianti artisti concettuali è Joseph Kosuth, secondo il quale essere artista significa indagare la natura dell’arte. Nella celebre composizione Una e tre sedie Kosuth esplicita la propria radicale concezione dell’arte. A sinistra abbiamo la fotografia della sedia. Al centro è posta la sedia vera e a destra vediamo la voce “sedia” presa da un vocabolario. Quindi l’oggetto sedia è definito in tre modi, tutti espressivi, pur non essendo artistici. Da tutto ciò arriva il messaggio che l’arte non è necessaria per conoscere la realtà. Anzi, la riproduzione pittorica di una sedia potrebbe essere fuorviante perché introdurrebbe degli elementi soggettivi dell’artista. Questa ricerca verrà portata all’esasperazione con una serie di riproduzioni dei testi di definizione di varie parole. Kosuth annulla l’oggetto stesso e ogni possibile creazione artistica nasce e muore nella testa di chi l’ha pensata.

L’eredità dell’arte concettuale
Cosa ci ha lasciato questo tipo di arte? L’eredità del concettuale, la cui principale influenza si identifica nel permanere di un atteggiamento critico capace di rimettere in discussione le sue stesse premesse, ha continuato a dimostrarsi determinante anche dopo gli anni Ottanta. Può essere anche individuata in molte delle declinazioni attuali del video, della performance, dell’arte pubblica e relazionale.
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Questo post fa parte della rubrica #lopotevofareanchio, in cui se vuoi puoi esplorare l’arte contemporanea!
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C.C.
Fonti: Arte contemporanea, a cura di Francesco Poli, Electa, Milano, 2003