
Abbiamo già detto dell’aspetto tecnico dell’affresco ma oggi cominceremo a trattarne il lato storico in una serie di post collegati tra loro. E come tutte le storie che si rispettino è giusto cominciare dall’inizio.
I primi esempi di dipinti che utilizzano la tecnica dell’affresco risalgono agli inizi del II millennio a. C. in Mesopotamia (palazzo di Yarim-Lim a Alalakh) e a Creta (palazzo di Cnosso). Sulle caratteristiche della pittura murale antica in Asia centrale ed Estremo Oriente, dove comunque appare eseguita più che altro a secco, non esistono molti studi dettagliati.
In India, dalle ricerche pubblicate da alcuni studiosi risulta che una tecnica simile all’affresco comparve solo attorno al VII secolo d.C. Mentre indagini recenti hanno dimostrato che nello stesso periodo in Giappone esistesse una tecnica a fresco già evoluta.
Della grande pittura murale greca, di cui ci parlano le fonti antiche, gli scarsi ma fortunati ritrovamenti rivelano, già a partire dal V secolo a. C., una perfetta conoscenza dell’affresco.

Un assaggio di quella padronanza era già stato colto nel graduale progredire della tecnica in Etruria, regione antica dell’Italia centrale. In questi territori da un iniziale sottilissimo strato di calce, steso direttamente sulle pareti di tufo levigato o su uno strato di argilla finissima, si passò ai due strati di calce e sabbia della tomba dell’Orco a Tarquinia. Ma anche alla raffinata realizzazione delle tombe rinvenute a Orvieto, in cui la stratificazione era già simile per composizione all’intonaco romano.
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L’affresco romano
È a Roma infatti che vengono comprese e sfruttate al massimo le possibilità dell’affresco. Ad esso fa riferimento in più occasioni Plinio e Vitruvio, che con ricchezza di dettagli e accuratezza di terminologia, ne descrive materiali costitutivi e metodi di esecuzione. Dalle istruzioni sul prolungato spegnimento della calce (tre anni), a quelle sulla complessa stratificazione e composizione degli intonaci (per un totale di sette), alla lucidatura meccanica intermedia e finale, tutto per raggiungere un livello di levigatezza e lucentezza della superficie pittorica straordinario.

Per molto tempo si pensò che i Romani si servissero della cera come legante per ottenere superfici così lisce, e il dibattito è andato avanti per quasi due secoli. Di recente tramite una corretta rilettura del testo di Vitruvio e un’indagine sistematica sui reperti, si è arrivati però alla conclusione che il “grande segreto” sta nella combinazione tra spessore, natura degli intonaci e completo sfruttamento delle caratteristiche delle terre usate per dipingere, in cui componente argillosa ne permette la lucidatura.
Lo strato affrescato poteva cioè, quando ancora bagnato, essere ripetutamente levigato fino a ottenere una superficie riflettente. D’altronde Vitruvio solo a proposito del cinabro accenna alla cera, e ne parla come d’uno strato protettivo che ne evita l’annerimento, soprattutto in dipinti all’aperto. E lo stesso Plinio, cui si deve la descrizione dell’uso della cera come legante, avvertiva che essa non era da impiegarsi nella pittura murale se non come protezione. Svelato il mistero dell’affresco romano, la prossima volta vi parlerò di come questa tecnica attraversò il medioevo per arrivare alle porte del Rinascimento.
Continua l’esplorazione …
L’affresco, piccola guida per capire cos’è
4: l’affresco dal Cinquecento ai giorni nostri
3: l’affresco dal Medioevo al Quattrocento, secolo della svolta
Sinopia, spolvero ed incisioni: per non sbagliare un affresco!
C.C.
Che meraviglia l'arte minoica!
Interessantissimo questo articolo!