
Non è un errore dire che l’arte negli ultimi cinquant’anni può trovare nella fotografia una sintesi dei propri andamenti.
Le fortune di questo mezzo non possono essere considerate un fenomeno casuale, trovando spiegazione nella particolare sintonia che la fotografia ha dimostrato nei confronti delle poetiche artistiche emerse a partire dagli anni sessanta.
L’arte contemporanea ha viaggiato sostanzialmente su due linee parallele. Grande astrazione e grande realismo che la fotografia riesce a sintetizzare.
Il grande pregio di questo mezzo è proprio quello di poter essere allo stesso tempo strumento di costruzione del reale e forma di prelievo diretto dalla realtà. Esattamente come un ready made, oggetto elevato dall’artista a opera d’arte.
Una duplicità che ha generato equivoci sul piano della produzione, ma questi hanno portato una gran ricchezza di ricerche nell’arte degli ultimi cinquant’anni.
Gli anni della pop art
Reportage come vocazione alla raccolta, alla ricognizione oggettiva, all’esibizione imparziale del mondo, tutto ciò riassume la poetica pop, coincidendo con un principio fondante della fotografia.
Si delineò così un rapporto tra foto e ricerca artistica che in seguito troveremo molto spesso. Un caso da cui partire è sicuramente quello di Robert Rauschenberg che, se per alcuni aspetti non può essere considerato un autore pop in senso stretto, anticipò però alcuni usi della fotografia poi ripresi dallo stesso Warhol. Rauschenberg intuì la possibilità di considerare la fotografia al pari di altri oggetti caratterizzanti la cultura di massa.

Il contributo di Warhol
Ma è certamente il contributo di Andy Warhol il più ampio espresso dalla poetica pop nei confronti della fotografia, sia in termini di quantità che di qualità. Affermando di voler essere una macchina, Warhol riabilitò quella caratteristica di meccanica automaticità che fino a quel momento si voleva superare, per accomunare la fotografia stessa all’arte. Agli occhi di Warhol la fotografia rappresentava il prototipo perfetto di un’arte in grado di escludere l’autore come soggetto psicologico, sostituendolo con un autore-macchina, perfettamente integrato con lo strumento. Non ci si stupisce dunque per l’utilizzo della Polaroid in cui basta schiacciare un bottone, oppure addirittura della cabina per fotografie automatiche. Non manca il ready made, cioè il prelievo di immagini fatte da altri, così che la ricerca di non-creatività finì per portare alla totale rinuncia al fare.
È all’interno del clima pop che la differenza tra artisti e “fotografi puri” cominciò a sfumare, e figura simbolo di questo riavvicinamento è l’americana Diane Arbus, nota per i suoi ritratti di soggetti marginali e diversi.
Proveniente dalla fotografia di moda, la Arbus, pur non appartenendo direttamente al gruppo della pop, ne respirò l’aria. Negli anni sessanta frequentò gli stessi ambienti, le stesse gallerie, ne condivise la poetica, aprendo al rapporto tra i fotografi puri e gli artisti.
Anni settanta
Per molti protagonisti della body come Bruce Nauman, Arnulf Rainer, Urs Luthi, Giuseppe Penone e Gina Pane, la fotografia diventò uno specchio sul quale controllare il proprio corpo e prenderne coscienza.
L’identità della fotografia
Certificazione, memoria, raccolta e catalogazione, intervento sulla temporalità e supporto a una certa azione. Sono tutte categorie che costituiscono l’identità della fotografia nella nostra esperienza quotidiana. Gli artisti concettuali le recuperarono e le applicarono alle loro ricerche. Per quanto riguarda un’applicazione della categoria memoria, vanno ricordati i francesi Jean Le Gac e Christian Boltanski. Due artisti ripetutamente impegnati a celebrare quella dimensione del “tempo perduto” così cara alla cultura letteraria del loro paese.

Una bella riflessione sulla temporalità fotografica venne svolta da Mario Cresci, che ebbe il merito di portare una forte componente di concettualità all’interno di un più tradizionale lavoro di reportage. Pur manifestando una vocazione più mondana che autoriflessiva, negli anni settanta la fotografia ha comunque partecipato a quel clima di ricerca che aveva per oggetto il linguaggio stesso dell’arte.
In questi anni l’arte ha saputo raccogliere le tensioni e le istanze di rinnovamento provenienti dal Sessantotto. L’idea di una partecipazione allargata alla politica e al sociale, si diffuse anche ai territori dell’arte. Trovò esemplare applicazione nell’installazione della cabina automatica per fototessere realizzata da Franco Vaccari alla Biennale veneziana del 1972. Il pubblico, seguendo l’indicazione fornita con una scritta dall’artista, era invitato a costruire direttamente l’opera. Lasciando sulle pareti della stanza una traccia fotografica del proprio passaggio.
Anni ottanta
Fotografi e artisti si mescolarono senza più pregiudizi, consapevoli di poter ormai dialogare alla pari, lontano da quei sospetti che li avevano tenuti distanti. È in questo nuovo clima che i grandi protagonisti della fotografia di moda vennero ospitati nelle gallerie e nei musei. Rappresentanti tra i più emblematici di questa svolta possono essere considerati l’americano Bruce Weber e il tedesco Helmut Newton.

L’operatore che meglio riassume l’unificazione tra fotografia e arte proposta dagli anni ottanta è però sicuramente l’americano Robert Mapplethorpe. Come nessun altro riuscì a coniugare il perfezionismo tipico della tradizione fotografica con il coinvolgimento concettuale che l’arte ormai richiedeva. Scabroso e poetico al tempo stesso Mapplethorpe ebbe il coraggio di far coincidere l’arte con le proprie scelte di vita e di comportamento sessuale.
Protagonisti e protagoniste
Negli anni ottanta si fece sempre più significativa anche la presenza sulla scena artistica internazionale di protagoniste femminili. Nella ricerca fotografica i nomi più interessanti sono quelli delle americane Cindy Sherman, Barbara Kruger, Sandy Skoglund e dell’australiana Tracey Moffat. In Italia una situazione interessante si creò intorno ad autori come Luigi Ghirri, Olivo Barbieri, Guido Guidi, Mimmo Jodice, Gabriele Basilico, Giovanni Chiaramonte. Tutti presenti nella mostra “Viaggio in Italia” del 1984, evento che può essere considerato una sorta di manifesto di questo gruppo che non si diede mai una configurazione ufficiale.

La caduta delle barriere ideologiche (ma anche dei muri reali), favorì in questo decennio una piena affermazione dei tedeschi Bernd e Hilla Becher, i quali già si muovevano in questa direzione di ricerca fin dagli anni sessanta.
La scuola tedesca vedrà poi una ribalta di alcuni allievi dei Becher quali Thomas Ruff, Thomas Struth e Andreas Gursky.
Gli anni Novanta
Nella ricerca degli anni novanta si assistette a un nuovo rilancio delle tematiche legate al corpo e alla sessualità. All’origine di questo fenomeno ci furono le ipotesi di cambiamento e di manipolazione estetica offerte dalla scienza medica e più in generale da una cultura che rese accettabile l’idea della manipolazione e mutazione del corpo a proprio piacimento.
Il critico americano Jeffrey Deitch promosse una grande mostra internazionale su questi temi coniando l’etichetta di “Post human”. Ovviamente la fotografia entrò in grande stile in queste ricerche, dimostrandosi lo strumento più adatto a mantenere, conservare e attestare.

Lavorare sul corpo
I lavori sul corpo degli anni novanta riproposero le due strade già manifestate in precedenza. Da un lato verificare i limiti fisici del corpo, dall’altro sfidare in modo ardito la frontiera dell’immaginario e dell’uscita da sé. Sul primo versante la presenza più vistosa è senz’altro quella della francese Orlan, che ci introduce nelle sale chirurgiche dove si sottopone a traumatici interventi di mutazione d’immagine. Decisamente più giocose sono invece le trasmigrazioni d’identità proposte dal giapponese Yasuma Morimura che si è calato nei panni delle mitiche eroine cinematografiche.
Qualcosa di simile ha fatto la sua connazionale Mariko Mori ispirandosi a protagonisti dei fumetti e dei videogiochi.

L’ossessione sessuale torna anche nell’opera dell’americano Andres Serrano, autore giudicato agli esordi scandaloso per la sovrapposizione proposta dai suoi lavori tra sessualità e tematiche religiose.
L’americana Nan Goldin è invece autrice di un racconto ambientato tutto nel mondo della “diversità”, nel mondo dell’artista stessa, tra i suoi amici e i luoghi frequentati.
Vicino alla poetica della Goldin c’è Wolfgang Tillmans, che rinforza questa sensazione di fotografia come diario personale con particolari allestimenti. Le immagini vengono brutalmente esposte a parete con nastro adesivo dall’artista, così come ogni ragazzo farebbe sui muri della propria camera.
L’abolizione del privato o la sua messa in comune è un altro tratto caratteristico per l’arte degli anni novanta. Ed è quello che emerge nel lavoro di Sam Taylor Wood che ci fa partecipare a lunghe sequenze di bisticci e di discussioni nell’interno di comuni abitazioni. Ha scelto la via della messa in scena e della finzione anche il canadese Jeff Wall, con situazioni spesso ispirate a una quotidianità carica di inquietudine e di mistero.
Per concludere …
La fotografia nell’Ottocento era in competizione con la pittura, della quale sembrava destinata a raccogliere il testimone sulla strada della rappresentazione. Nel Novecento, e in particolare nella seconda metà del secolo, ha finito per manifestare un legame diretto con le operazioni più antipittoriche proposte dall’arte del ventesimo secolo. Ironia della sorte.
C.C.
Fonti: Arte contemporanea, a cura di Francesco Poli, Electa, Milano, 2003