
La storia dell’arte ha come attori principali, ovviamente, gli artisti, ma quando arrivarono questi ad avere coscienza del proprio mestiere e della propria importanza? Forse proprio quando gli artisti cominciarono a organizzarsi in gruppi, per darsi delle regole, delle norme e tutelare così il loro lavoro. L’esistenza di organizzazioni che raggruppino specificatamente i pittori non è provata in Europa prima del Duecento. Questi tipi di organizzazioni presuppongono un sistema socio-economico in cui tutti i mestieri siano regolamentati. Un sistema che venne raggiunto solo con lo sviluppo mercantile e manifatturiero del basso medioevo.
Con il consolidarsi della città e la connessa crescita dei bisogni, si verificò allora la condizione necessaria per la nascita di ogni arte o corporazione. La presenza, cioè, di un numero sufficiente di persone che esercitassero mestieri simili, dentro la stessa cerchia di mura. Il fatto che, agli albori del loro ordinamento corporativo, i pittori vengano spesso accomunati ai sellai, ai cartolai, agli speziali e ad altri artigiani con cui condividono materiali o procedimenti di lavoro è molto esemplificativo. Si tratta della prova più chiara che le persone che vivevano d’arte non erano poi tante nel Due e Trecento. Nel 1292, a Parigi, su circa 15.200 tassati, pittori e miniatori insieme superavano di poco la quarantina. Il colore è un lusso nel medioevo. Di conseguenza l’esistenza di una corporazione di artigiani che lo tratti di mestiere indica sempre uno stato di relativa agiatezza.
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Il Libro dei mestieri di Etienne Boileau definisce entro il 1271 un quadro complesso dell’industria del lusso in una Parigi medievale al culmine della sua fama. Per altre città non esiste nulla di simile. Lo storico quindi deve puntare su documenti meno affascinanti, prima di tutto gli statuti delle stesse corporazioni. Come per gli orefici, anche per i pittori è Venezia che apre la lista. Lo statuto dei suoi pittori è del 1271. Nel 1293, nel mezzo del regno di Edoardo I, i pittori di Londra promulgano le loro prime ordinanze, in gran parte relative alle selle. Seguono nel 1315 e nel 1348 rispettivamente gli statuti dei pittori di Firenze, accolti nell’Arte dei medici e degli speziali, e dei pittori di Praga.
Come vediamo da questi esempi, la storia delle corporazioni dei pittori si presenta come il frutto di un sistema organizzativo radicato in Europa, e per altri mestieri più che secolare.
Non è detto però che gli statuti arrivati fino a noi segnino sempre la data di nascita di una corporazione o la prova inconfutabile del successo di una scuola pittorica. Siena, Perugia e Bologna sono in pieno fermento artistico già tra Due e Trecento, eppure gli statuti noti dei loro pittori e miniatori furono tutti realizzati oltre la metà del XIV secolo. Anche l’idea diffusa delle corporazioni come forma di organizzazione tipica del gotico comunale va ridimensionata. Roma ad esempio ebbe il suo statuto dei pittori solo in pieno Rinascimento, nel 1478, sotto il papato di Sisto IV.
Dal Due al Quattrocento, all’ombra di una corte come nelle città libere, gli statuti e i loro numerosi aggiornamenti prevedono una gamma ristretta di problemi che solo in parte fanno luce sul lavoro del pittore. Il principale interesse ovviamente è istituzionale. Tasse annuali e d’immatricolazione, doveri dei membri, carattere e durata delle cariche.
Quanto al mestiere vero e proprio, si raccomanda soprattutto che i materiali usati siano della qualità prevista e che i maestri mantengano un rapporto corretto tra loro e con i rispettivi lavoranti e discepoli.
Un pittore che esegua un’opera con dei difetti tecnici o sottragga collaboratori a un collega poteva essere punito. Gli statuti inoltre citano a volte il tirocinio necessario per venire dichiarati maestri. Ogni responsabilità didattica però spettava alla bottega presso cui il tirocinio veniva compiuto. Uno spiccato spirito di gruppo detta la norma frequente che vieta a pittori non iscritti all’arte o stranieri l’esercizio della loro professione.
In tutte queste prescrizioni, sostituendo la parola pittore con la parola ottonaio, fabbro, legnaiolo, si può aver chiara l’idea di quanto poco gli statuti delle corporazioni dei pittori prevedano la pittura. Per questo l’inizio dello statuto dei pittori senesi del 1356 costituisce un’eccezione spesso citata. “Noi siamo per la grazia di Dio manifestatori agli uomini grossi, che non sanno lettera, de le cose miracolose, operate per virtù et in virtù de la santa fede”. A Praga, nel 1348, la corporazione nacque proprio da un desiderio di rendere più vincolante il legame tra colleghi nato nella locale confraternita di San Luca. Mentre a Firenze la compagnia dedicata allo stesso santo pittore, attiva dal 1339, costituisce il sintomo di una coscienza professionale specifica.
Non a caso, nella Firenze del 1562-63, l’accademia si svilupperà dalla compagnia, non dalla corporazione. Solo nel 1571 la “compagnia et academia delle arti del disegno” diverrà essa stessa un’arte, confermando in tal modo la vitalità del sistema corporativo, destinato di fatto a durare fino alla rivoluzione francese. Inflessibile nel garantire ai membri di pari grado gli stessi diritti, la corporazione assicura in genere che la qualità tecnica della produzione pittorica non scenda di livello. Ci sono però dei casi in cui un singolo membro ritiene insopportabili i limiti impostigli dalla corporazione e gli esempi illustri sono diversi.

L’architetto Brunelleschi trova da dire all’arte fiorentina dei maestri di pietra e legname e Michelangelo a quella romana degli scalpellini. Mentre il braccio di ferro tra Giovan Battista Paggi e la corporazione dei pittori di Genova costituisce alla fine del Cinquecento l’esempio più significativo in pittura. Autodidatta e costretto a vivere a Firenze per un omicidio, il pittore genovese non poteva esercitare in patria né farvi pervenire le sue opere per opposizione della corporazione. Tuttavia, avendo fatto ricorso al Senato genovese, ebbe la meglio con una sentenza che sarebbe tornata come una bandiera nella letteratura artistica successiva. Paggi era di origine patrizia, ma più che questo fatto sembra aver convinto i suoi giudici l’idea che la pittura fosse un’arte liberale.
Il cammino dall’artigiano medievale all’artista moderno è molto meno drammatico di quello che volessero far credere i critici nel corso della storia. Tuttavia è chiaro che una fase cruciale di quel cammino fu rappresentata dalla convinzione che la pittura non fosse riducibile a una semplice attività manuale.
Questa convinzione è già presente nel Trecento e ad essa sembra aver contribuito più la società di corte che quella cittadina. Prima di venire definito dal Boccaccio “una delle luci della fiorentina gloria”, Giotto è infatti registrato a Napoli come familiaris del re. Lo stesso secolo che vede moltiplicarsi gli statuti dei pittori porta dunque con sé il mito della pittura come arte nobile.
La professione dell’artista
Quando il Cennini, parlando di quanti “vengono all’arte”, precisa “chi per animo gentile e chi per guadagno”, il significato della parola arte sfuma tra il vecchio senso di corporazione e quello moderno di libera attività spirituale.
Da allora gli artisti hanno fatto molta strada per poter vedersi riconosciuta una professione che ancora oggi solleva dubbi, ahimè, sul suo effettivo valore.
C.C.
Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui