
Una parola molto interessante, che oggi diventerà il nostro punto di partenza per una riflessione tra arte, letteratura, cultura e stereotipi, è bohémien. Quante volte avremo sentito questa parola che subito ci riporta a un immaginario di vite artistiche vissute in maniera spericolata. Un po’ come canta Vasco Rossi, vite trasgressive, dissolute e fuori dagli schemi. Ed ecco che parte il nostro viaggio che ci porta subito in Boemia, terra d’origine degli zingari e regione storica dell’Europa centrale.
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Bohémien inizialmente stava a indicare uno zingaro, ma di conseguenza si riferiva anche alle persone stravaganti nel comportamento e nell’abbigliamento. Quindi lo stereotipo riguardò poi gli artisti, in grado di vivere delle vite in cui gli ideali erano contrapposti a quelli borghesi. Bohémien finì per accomunare poeti, musicisti e pittori apprendisti, non ancora famosi e di conseguenza squattrinati. Un termine che non si può tradurre in altre lingue e che conobbe una gran fortuna a partire dalla metà dell’Ottocento grazie a un romanzo. Si tratta di Scènes de la vie de Bohème, opera del giovanissimo Henri Murger, pubblicata a puntate sul giornale parigino Le Corsaire e poi raccolta in un unico volume.

Ma di che si tratta? È una storia molto vivace e in parte autobiografica in cui Murger racconta le vicende di un gruppo di giovani artisti. Ad accomunare questi ragazzi ci sono sogni di grandezza e difficoltà economiche, tra le soffitte parigine e i caffè del Quartiere Latino. Nell’intreccio del romanzo si sviluppano struggenti storie d’amore. Quella tra il poeta Rodolphe e la sartina Mimi, destinata a morire di consunzione. E quella tra il pittore Marcel e Musette, ragazza dalla vita dissoluta. Verso la fine del XIX secolo l’ininterrotta fortuna del romanzo conobbe un vero e proprio boom grazie alla versione operistica di Giacomo Puccini. La Bohème debuttò con un trionfo nel 1896 al Teatro Regio di Torino, battendo sul tempo l’opera omonima scritta e musicata da Leoncavallo.

E la celebrazione dei bohémien va avanti nel tempo. Nel 1904 Michel Zamacoïs, scrittore francese, mise questo termine al centro di un poemetto recitato dalla più che sessantenne Sarah Bernhardt. In quest’opera assistiamo alle vicende dei giovani protagonisti della vita artistica parigina, sulla collina di Montmartre. Così con il passare del tempo questo termine si arricchì di sfumature, diventando anche un sinonimo di anticonformismo. Sono bohémien i giovani ed eleganti dandy, capaci di vivere senza regole, seguendo solo l’amore e la gioia d’esistere. Luogo privilegiato per quest’immaginario collettivo è Parigi in quanto centro di
produzione e mercato delle arti figurative nel XIX secolo. La città è lo scenario perfetto per il disagio di una generazione d’artisti di modeste origini sociali, affascinata dal mito dell’arte e costretta a una vita di ristrettezze.

Ma a condire le giornate di questi bohémien non c’è solo l’arte per l’arte, l’amore, la solidarietà di gruppo e i piccoli scherzi goliardici. C’è molto di più. Uno scontro tra l’artista e il pubblico borghese che nel tempo diventerà ideologico e inconciliabile. L’anticonformismo di questi giovani diventa il simbolo della differenza tra l’artista puro, incompreso e fedele
ai suoi ideali, e la società. Ancora una volta ci viene in soccorso la letteratura: lo scrittore Emile Zola ci racconta tutto ciò nel suo romanzo autobiografico L’Opera. Una gran voglia di andare controcorrente. Contro l’ordine borghese, contro le convenzioni,
contro il lavoro regolato, contro i salotti per bene e contro la politica patinata. Il compromesso tra artista e pubblico borghese non fu più raggiungibile.

Questa rottura diventò una condizione necessaria, un ingrediente fondamentale che insieme all’indipendenza creativa, all’insuccesso e alla mancanza di denaro crearono il bohèmien perfetto. Da questo punto di vista c’è un quadro formidabile di Edgar Degas. Nell’Assenzio del 1875-76 l’artista ritrae l’incisore Marcellin Desboutin seduto a un tavolo di caffè, al fianco di una donna persa nel guardare appunto un bicchiere d’assenzio. Qui abbiamo un focus preciso sul bohèmien parigino. Un personaggio costretto a superare con alcol o droga la distanza tra ambizioni e realtà. E potremmo aprire una parentesi enorme parlando dei cosiddetti pittori maledetti come Utrillo e Modigliani, ma questa è un’altra storia.

L’atelier diventò la sede privilegiata per il pittore bohèmiene e fu la conseguenza di una lunga tradizione partita da un gruppo di giovani artisti. Di questi contestatori rivoluzionari, cresciuti nell’atelier del grande David e conosciuti come Barbus, vi parlai già in passato. Ma non fu l’unico elemento ad anticipare la venuta dei bohèmien francesi. Troviamo infatti le stesse costanti tra Settecento e Ottocento in altre espressioni artistiche. Identità generazionale, abbigliamento strano, discussioni trasferite nelle trattorie e nei caffè. Tutti elementi che si ritrovano nella confraternita dei Nazareni come nelle comitive degli artisti
danesi a Roma. Oppure ancora negli incontri macchiaioli al Caffè Michelangelo di Firenze così come nell’affollato cabaret El quatre gats di Barcellona.
Insomma, osservando il bohémien dipinto da Thomas Eakins, pare proprio che in fondo gli hipster non abbiano inventato nulla di nuovo.
Continua l’esplorazione …
Se ti interessa approfondire l’argomento segui i link:
➡ Il Dandy
➡ L’artista maledetto
C.C.
Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui