
Oggi vi propongo una piccola artesplorazione trasversale, parlando di un luogo fondamentale per la produzione artistica. Mi riferisco alla bottega. Questa parola la vediamo utilizzata tra il Duecento e il Settecento, in Italia, per indicare il luogo in cui il pittore, come qualsiasi altro artigiano, esegue parte del suo lavoro. Nella bottega infatti l’artista realizza polittici, cassoni, gonfaloni e vari altri prodotti mobili che possono essere facilmente ultimati negli ambienti di bottega. Gli affreschi, le vetrate e altre opere simili richiedevano invece una lavorazione in loco da parte del pittore. In questi casi nella bottega veniva elaborato il progetto sotto forma di disegno o di modello a grandezza naturale oppure in scala.
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In questo sistema di produzione la bottega del pittore diventa anche il luogo in cui gestire al meglio i meccanismi della domanda e dell’offerta. Opere come pale d’altare o ritratti dipendevano sempre da una commissione specifica, ma in altri casi l’artista poteva realizzare dipinti e conservali in attesa di un compratore. È il caso dei quadri devozionali, dei paesaggi, delle nature morte e molto altro. Quindi insieme alla principale funzione produttiva, la bottega diventava anche una specie di negozio in cui esporre materiale in vendita. Ecco perché spesso questi ambienti erano collocati al piano terra e in diretto rapporto con la strada o con la piazza, per favorire l’accesso ai clienti.

C’era delle regole ben precise riguardanti la creazione e la gestione di una bottega d’arte. Poteva essere di proprietà del pittore o da lui presa in affitto. Ma aveva diritto di tener bottega solo chi era riconosciuto come “maestro” dall’arte o corporazione competente. Per fare un esempio, a Firenze era l’Arte dei medici e degli speziali a dare questo riconoscimento. Il maestro poteva avere uno o più “compagni”, con i quali condividere vantaggi e svantaggi economici dell’impresa. Quanto al lavoro vero e proprio, il maestro poteva svolgerlo da solo o con allievi e aiutanti stipendiati. I primi chiedevano loro stessi d’essere presi a bottega per imparare il mestiere e poter divenire un giorno maestri a loro volta. I secondi al contrario erano dei veri e propri operai che il maestro assumeva perché particolarmente abili o veloci nell’eseguire certe parti del lavoro.
Gli allievi o discepoli in un arco di tempo che poteva arrivare a dodici anni, dovevano compiere il loro apprendistato. Questo consisteva nel copiare disegni del maestro o di sua proprietà, pitture e sculture famose, modelli nudi o panneggiati. Contemporaneamente si prestavano a svolgere compiti secondari come preparare i colori, stendere la preparazione a tele e tavole o le prime mani di colore. Gli allievi portavano anche a termine le parti meno importanti dei dipinti realizzati in bottega. Il maestro non era tenuto a pagare il discepolo per questa collaborazione, anzi poteva essere pagato per accettarlo nella sua bottega. L’allievo era spesso molto giovane, a volte solo un bambino, il cui potenziale effettivo era un’incognita e un rischio per il maestro.

La bottega del pittore nel corso dei secoli, e in relazione al luogo e alle capacità del maestro titolare, poteva avere delle caratteristiche diverse. Artisti come Giotto, Raffaello e Rubens davano ampio spazio alla bottega e ai collaboratori. Tra i dipinti che uscivano da una bottega ben avviata, fino al pieno Seicento e oltre, ben pochi appartenevano interamente alla mano del maestro. Anche se non mancarono artisti che preferirono seguire in prima persona le varie fasi dell’elaborazione artistica. È nota ad esempio la diffidenza di Michelangelo per ogni forma di collaborazione che potesse interferire con il suo atto creativo. A parte rare eccezioni, la bottega però rimase per molto tempo il centro principale della vita artistica cittadina.

Recentemente gli storici hanno contrapposto la bottega all’accademia, ma molte delle caratteristiche delle accademie pubbliche e private erano presenti già nelle botteghe. Dal Cinquecento in avanti, inoltre, alcune botteghe di punta si autodefinirono “accademie”. Questo per sottolineare come, nel rapporto tra maestro e discepoli, esse prestassero maggiore attenzione all’aspetto didattico rispetto a quello produttivo. In seguito questo termine allargò il proprio significato. Tra Otto e Novecento il concetto di bottega compare soprattutto nelle espressioni “bottega di”, “opera di bottega”. In questo modo si segnò la differenza tra opera autografa e opera di bottega, anche se non sempre fondata dal punto di vista storico. Ad esempio è risultato che Giotto firmasse proprio i dipinti dove è più evidente la presenza di specifici collaboratori. Quindi la sua firma era più un marchio di fabbrica che un certificato di autografia.

La bottega, fucina di talenti
Ma al di là di queste disquisizioni possiamo dire che la bottega a partire dal Duecento fu un luogo importante per l’artista che vi poteva lavorare in solitudine o circondato da molti aiuti. Nel corso della storia dell’arte infatti non furono poche le botteghe che costituirono delle vere è proprie catene di montaggio per soddisfare committenze sempre più vaste. Ma non solo, la bottega è stato anche il luogo in cui grandi geni artistici hanno superato i propri maestri. Pensiamo a Mantegna allievo di Squarcione, oppure a Leonardo allievo di Verrocchio, oppure ancora a Raffaello allievo del Perugino. Furono quindi delle vere e proprie fucine di talenti dove tra fatiche, sfruttamenti e lunghi apprendistati si scrisse la storia dell’arte.
Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui
C.C.