
Ricostruire la vita di Piero della Francesca è un’impresa difficile dato che i documenti su cui possiamo oggi contare sono veramente pochi. L’artista nacque a Borgo San Sepolcro, libero comune toscano, e una delle culle della cultura rinascimentale, tra il 1416 e il 1417. Le prime testimonianze dell’artista al lavoro risalgono al 1439 e lo vedono a Firenze al fianco di Domenico Veneziano. L’esperienza di collaborazione con il grande artista segnò profondamente Piero, orientandolo sui problemi della luce e dello spazio costruito prospetticamente.
La permanenza fiorentina, fu l’occasione adatta per comprendere e acquisire la lezione dei grandi maestri della generazione precedente, Masaccio e Donatello su tutti. Inoltre anche l’arte fiamminga ebbe un notevole peso sulla pittura del maestro di San Sepolcro, in particolare nel gusto tutto transalpino per le ambientazioni e i dettagli. Alla base del rinnovamento linguistico di Piero vi furono i primi viaggi che l’artista fece fuori dalla Toscana, dividendosi tra le corti di Ferrara, di Rimini e di Urbino.

La prima opera documentata
È del 1445 la sua prima opera documentata. Il grandioso polittico della Misericordia eseguito per una potente confraternita del suo paese natale. Qui nonostante il fondo oro, ancora di tradizione gotica, le figure del polittico presentano una nuova e originale impostazione geometrica dei corpi, messi in evidenza dalla luce e dal colore. Nel 1449 la sua fama lo portò a Roma, dove Papa Pio II lo chiamò a decorare il palazzo apostolico con affreschi poi sostituiti dalle opere di Raffaello.
È sicura la presenza dell’artista a Rimini nell’anno 1451, grazie alla firma sull’affresco con Sigismondo Pandolfo Malatesta all’interno del Tempio Malatestiano. In città incontrò Leon Battista Alberti, che svolse un ruolo chiave nel trasmettere all’artista le proprie conoscenze di matematica e prospettiva.

Nel 1452 Piero fu chiamato ad Arezzo dalla famiglia Bacci per proseguire un’importante opera iniziata da Bicci di Lorenzo, morto prima di poterla terminare. Si tratta del celebre ciclo conservato nella cappella maggiore della basilica di San Francesco. È difficile da collocare nel tempo e uno dei nodi più intricati e vaghi della biografia dell’artista. L’oggetto dei dipinti è la Leggenda della vera Croce, tratta dal testo della Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine e qui affrescata nei suoi episodi principali. Anche della Madonna del Parto di Monterchi non si conosce con certezza la data. La si fa risalire al 1459, anno in cui l’artista forse si recò a Monterchi a causa dei funerali della madre. È sicuramente una delle opere più note dell’artista, nella quale egli si cimentò con un soggetto iconografico insolito per l’arte italiana. La Vergine è rappresentata come una semplice e reale donna incinta.

Piero e Urbino
Non sappiamo esattamente quando iniziarono i rapporti, destinati a durare a lungo, tra Piero e la città di Urbino. Ma la Flagellazione un legame con la capitale dei Montefeltro ce l’ha. Oggetto di lungo e controverso dibattito che continua ancora oggi, il piccolo dipinto su tavola viene datato tra il 1463 e il 1464. Su quest’opera aleggiano moltissime domande, ma le risposte certe sono ancora poche. Il notissimo dittico raffigurante i ritratti dei Duchi di Urbino, Federico da Montefeltro e Battista Sforza, segna un’altra tappa della vita dell’artista a Urbino e spicca per la straordinaria qualità della pittura. Nei piccoli dipinti le vedute panoramiche si aprono in lontananza riassumendo straordinariamente la grandezza poetica di Piero, capace di reinterpretare il realismo d’origine nordica con una luminosità dosata con intelligenza.

Ma a Urbino l’artista lasciò altri capolavori come la Madonna di Senigallia, dove la luce inonda il vano della scena prospetticamente costruita dando vita a una sintesi di luce e geometria. Oppure la Pala di Brera dove davanti a un fitto gruppo di angeli e santi e alla presenza della Vergine col Figlio in braccio, appare inginocchiato Federico da Montefeltro. Questa presenza, oltre a dimostrare con chiarezza il committente della tavola, conferma l’importanza che il signore di Urbino ebbe sulla carriera artistica di Piero della Francesca.
Dopo il periodo trascorso alla corte dei Montefeltro, Piero della Francesca, oltre ad aver continuato la sua produzione artistica, ci ha lasciato qualche traccia in diversi documenti ufficiali che lo collocano nella sua nativa Sansepolcro, dove occupò un seggio nel consiglio comunale fino al 1480. Tornò a Rimini nel 1482 e qui prese in affitto un’abitazione, dove scrisse un trattato sulla geometria euclidea, concluso nel 1485 e intitolato a Guidobaldo da Montefeltro, figlio di Federico. L’artista fece testamento il 5 luglio 1487, scrivendo d’essere “sano nello spirito, nella mente e nel corpo”. Morì cinque anni più tardi a Sansepolcro il 12 ottobre 1492, nello stesso giorno in cui venne scoperta l’America. La sua salma trovò eterno riposo, con tutti gli onori, nella badia di Sansepolcro, la chiesa più importante della città.

Piero intellettuale-trattatista
Oltre a essere un grande artista, Piero della Francesca fu anche artefice di trattati matematici e di geometria prospettica. Questa sua attività teorica si concretizzò nella stesura del De prospectiva e del Libellus, rispettivamente dedicati a Federico da Montefeltro e al figlio Guidobaldo. L’importanza del primo trattato, che ci è giunto in due versioni manoscritte, è dovuta al modo in cui l’autore, con rigore e sistema, spiega le applicazioni della scienza prospettica all’arte della pittura. Il testo ha uno scopo puramente didattico, rivolto a un pubblico di lettori-pittori, con il fine di dar loro gli strumenti fondamentali per una soluzione corretta dei problemi ottici.
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Il De prospectiva si compone di tre libri, decorati da una serie di grafici e disegni esplicativi. Nel primo vengono affrontati i problemi della geometria a due dimensioni. Nel secondo, invece, sono studiati i metodi di rappresentazione dei solidi tridimensionali. Mentre nell’ultimo l’attenzione si concentra su temi già trattati in precedenza e ripresi sulla base delle nozioni del primo e del secondo libro.
Il Libellus, a differenza del primo trattato, è più concreto e affronta temi astratti di carattere filosofico-concettuale, ma come il precedente è completato da figure di accompagnamento al testo. In quest’opera Piero della Francesca si pone come l’interprete di una vera e propria mistica delle forme, recuperando teorie interpretative pitagoriche, platoniche e neoplatoniche. Affrontando il mondo come un insieme di solidi complessi, che derivano tutti dai modelli universali, identificati nei corpi di alcune figure geometriche.
Quest’opera ebbe un’influenza vastissima sullo sviluppo del pensiero matematico-metafisico del tempo, confermata da Luca Pacioli nel suo De Divina Proportione, che nel terzo libro include una parte del testo di Piero in lingua volgare. In ultimo vale la pena ricordare il De abaco, un piccolo trattato a parte, che rappresenta l’opposto estremo del Libellus. In esso, infatti, la riflessione di carattere concettuale lascia il posto ad applicazioni concrete del sapere matematico. Tutto rivolto a mercanti e venditori, per cui i giochi della geometria e dei numeri del trattato, regalarono ottimi strumenti di lavoro e calcolo. Con Piero della Francesca la scienza diventò così arte.
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C.C.
Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui